1. BIOMUSICOGRAFIA DEANDREIANA: Dalla nascita al Michè

Questa biografia di De Andrè è stata scritta insieme a Marco Frigerio e Fabrizio Moscatelli, in un periodo imprecisabile, molti anni fa…

Quando nel 1980 morì Gorge Brassens, poeta e cantautore francese, De Andrè disse durante un’intervista apparsa poi su un quotidiano: “Pur avendone avuto la possibilità, non ho mai voluto conoscerlo personalmente, per evitare che diventasse una persona e magari scoprirlo anche antipatico. Per me è stato un mito, una guida, un esempio; è grazie a lui che mi sono avvicinato all’anarchismo. Egli rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi e insegnò anche ai borghesi certe forme di rispetto ai quali non erano abituati. I suoi testi si possono leggere anche senza la musica. Per me è come leggere Socrate: ti insegna come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi”.

Noi non conoscemmo mai De Andrè di persona. Non vedemmo mai neppure un suo concerto, forse perché eravamo troppo giovani: la nostra passione per i suoi testi e le sue canzoni nacque dopo la sua morte, pochi anni fa. Come De Andrè non volle conoscere Brassens, così noi non potemmo conoscere di persona Fabrizio. Ma, tutto sommato, forse è meglio così: vogliamo parlarvi di una persona che forse non è mai esistita se non nel nostro frequentare la sua musica e raffigurarcelo a nostro modo, come mito, come eroe, come leggenda…

“Signorina, permette che le legga la mano? Non abbia timore, so leggere nel futuro. Non ci crede? Dunque… Vedo chiaramente che lei sposerà… Un professore e avrà due figli. Uno assomiglierà a lei e l’altro… A me!”[1].

Così il signor Giuseppe De Andrè conobbe nel 1934 Luigia Amerio, sua futura moglie. Di lì a sei anni, alle dodici in punto del 18 febbraio 1940, sarebbe nato a Genova il loro secondo figlio, Fabrizio, sotto le note, si narra, del Valzer campestre di Gino Marinuzzi: la canzone sarebbe stata poi ripresa dallo stesso Fabrizio nel brano Valzer per un amore, dedicata alla madre.

Erano anni di guerra, e la famiglia De Andrè (padre escluso) si trasferì a Revignano D’Asti, in Piemonte. Bicio, soprannome dato al piccolo Fabrizio, vivrà la sua infanzia nel cuore della campagna, innamorandosi di quell’ambiente: “brucia energie e curiosità, si sporca di terra, sta con i contadini nei campi, guarda Nina, sua compagna di giochi, volare sulle corde dell’altalena”[2]. Questo clima, quest’atmosfera, non abbandonerà mai il suo cuore, tanto che nella seconda metà degli anni ’70 Fabrizio acquisterà un cascinale fuori dal mondo, a Tempio Pausania, in Sardegna, e vi si trasferirà a vivere.

Un giorno, all’improvviso, il piccolo Bicio vide ricomparire lo zio Francesco, di ritorno dalla guerra. Il suo volto scavato e i suoi racconti sul dramma dei campi di concentramento, sulle morti inutili, sulla fame e sugli abusi di potere, segneranno profondamente i molti testi antimilitaristi di Fabrizio: La ballata dell’eroe, La guerra di Piero, Girotondo e molti altri brani saranno l’espressione adulta dei segni lasciati nel fanciullo dalle parole dello zio.

Con l’arrivo del settembre del ’45 e della liberazione dell’Italia, la famiglia fece ritorno in una Genova desolata e distrutta. Fabrizio, privato degli spazi aperti, della vita bucolica e degli amici di infanzia ne risentì molto: fu nei vicoli, “nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, nelle bande di strada, che Bicio, crescendo, avrebbe ritrovato una nuova libertà, vissuta a suon di battaglie di ogni tipo, sassaiole, scontri con fucili ad aria compressa e razzi sparati sui pescatori.

Tra una “belinata” e l’altra gli anni passarono in fretta; studio del violino e Scuole elementari (le suore Marcelline, insegnanti, vennero subito ribattezzate da Bicio “Porcelline”) presero il via quasi contemporaneamente. Nell’estate del ’52 (a 12 anni!)  in vacanza“conobbe Georgette,una francese di circa trent’anni. Costei lo corteggiò per diversi giorni fino a che, con la scusa di fargli vedere un album di foto, lo fece salire in camera da lei”[3]. Fu la prima esperienza sessuale di una lunga serie, fra le quali la più scandalosa gli valse anche una citazione in tribunale: a sedici anni, innamoratosi di una coetanea tanto da decidere di sposarla, “una notte, dopo aver aperto la porta a spallate, entrarono in una chiesa e si misero a fare l’amore su una panca.(…) Sorpreso in flagrante, fu denunciato per violazione di luogo sacro, atti osceni in luogo sacro ed effrazione. Fabrizio se la cavò grazie all’intervento del padre, che convinse il parroco a ritirare la denuncia”[4].

Nel 1954 una piccola grande svolta: il padre, di ritorno dalla Francia, gli portò in regalo un 33 giri di Brassens. In Fabrizio si accese qualcosa: lo chansonnier francese non solo ispirò molti suoi testi (fra cui alcune traduzioni quali Il Gorilla, Morire per delle idee, Marcia Nuziale e Le Passanti) e musiche, ma lo spinse, ancora giovane, alla lettura di alcuni classici del pensiero anarchico-libertario, da Bakunin a Malatesta, passando per Kropotkin fino all’individualismo di Max Stirner.

Come cantò Brassens:

“Eppure non danneggio nessuno

Seguendo la mia strada di uomo tranquillo

Ma alle persone per bene non piace che

si segua una strada diversa dalla loro

No, alle persone per bene, non piace che

Si segua una strada diversa dalla loro…”[5]

Il concetto di fondo è semplice, come disse di se stesso Fabrizio: “il mio identikit, è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo… in realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stessa capacità”.

Intanto Fabrizio sta frequentando il Liceo Classico: il confronto con il fratello maggiore (primo della classe) e anche con il padre (figura di spicco della “Genova bene”) avrebbe segnato profondamente le tappe della crescita di Fabrizio. Migliora musicalmente (abbandonando il violino e passando alla chitarra) e inizia a suonare e ad esibirsi con gruppi jazz e country.

Dal punto di vista dei rapporti personali, l’amicizia che più lo segnò fu quella con  un coetaneo, Rino Oxilia. In sella a una  vecchia Gilera erano soliti girare in lungo e in largo Genova e dintorni alla ricerca delle esperienze più disparate: dalle feste della giovane borghesia benpensante alle bettole di malaffare, la storia era sempre la stessa, alcol e belle ragazze disponibili

Un mercoledì santo, il professore di filosofia, soprannominato don Birillo, presentò alla classe un testo di Kierkegaard, in cui vi era un paragone fra la morte di Cristo e quella di Socrate. A fine lezione, raccontò il sacerdote, “è venuto dinnanzi alla cattedra e mi ha detto: “Don Giacomino, io non ti dico buona Pasqua, perché per me non ha senso (sapevo infatti che era piuttosto tormentato dal punto di vista della fede) però quel Gesù di cui hai parlato oggi piace anche a me. È un Gesù più umano”. Tutto questo mi riporta alla mente Si chiamava Gesù[6], testo in cui le vicende del figlio di Dio vengono rilette da una prospettiva diversa, scettica e al contempo molto rispettosa. Sono le  vicende di un uomo mortale che, appunto perché mortale, sembra esser degno di un’ammirazione tutta particolare: 

“ma inumano è pur sempre l’amore
di chi rantola senza rancore
perdonando con l’ultima voce
chi lo uccide fra le braccia di una croce.

(…)
E morì come tutti si muore
come tutti cambiando colore
non si può dire non sia servito a molto
perché il male dalla terra non fu tolto”
[7]

La figura di Cristo sarà al centro di un intero album, La buona novella, ispirato ai vangeli apocrifi.

A 18 anni Fabrizio andò via da casa. Dopo il diploma, iniziò a lavorare come segretario in una delle scuole del padre, pur potendo farne a meno, e intanto si iscrisse all’università (medicina, lettere e poi giurisprudenza), senza riuscire mai a laurearsi.

A 20 anni scrisse la sua prima celebre canzone, nel suo inconfondibile stile: La ballata del Michè. Ai tempi non era ancora celebre e avrebbe dovuto aspettare altri otto anni per farsi conoscere al grande pubblico.

Quella di Michè peraltro è la prima di una serie di indimenticabili suicidi: il binomio amore-morte è al centro di questa come di molti altri suoi brani. “Mille considerazioni si potrebbero svolgere intorno a questo vero e proprio topos della letteratura mondiale, ma molto più semplicemente mi permetto di prendere a prestito un’osservazione del filosofo Fernando Savater, il quale scrive: “ciò ch’è incompatibile con la morte non è vivere (la vita esige la morte) ma amare: l’amore disconosce la forza della morte, anche se amiamo consci della nostra mortalità e di quelli che amiamo”. Michè vive insomma il distacco dall’amata come un’esperienza di morte e, non riuscendo a elaborare questo “lutto”, col suo gesto intende sovrastare la morte fisica rendendo irreversibile e quindi eterno (in un senso tutto ideale, ovviamente) il proprio amore”[8].

[1]Luigi Viva, Vita di Fabrizio De Andrè, Feltrinelli, 2000, pag. 7

[2]Riccardo Bertoncelli, Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De Andrè, giunti, 2003, pag. 41

[3]Vita di Fabrizio De Andrè, pag. 36

[4]Vita di Fabrizio De Andrè, pag. 48

[5]Vita di Fabrizio De Andrè, pag. 60

[6]Vita di Fabrizio De Andrè, pag. 58

[7]Fabrizio De Andre’, Si chiamava Gesù, volume I, 1967

[8]http://www.giuseppecirigliano.it/La%20ballata%20del%20Miche’.htm

Informazioni su otim82

...e m isento un eroe a tempo perso...
Questa voce è stata pubblicata in Graffiti!. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento